Transfert, Controtransfert e Cultura
La relazione che si costruisce tra paziente e terapeuta è il primo e principale strumento utilizzato per stimolare il cambiamento, sciogliere le resistenze e promuovere l’evoluzione del Sé.
Elemento fondamentale della relazione terapeutica è il transfert, un meccanismo inconscio per il quale ogni individuo tende a spostare schemi di sentimenti e pensieri relativi a una relazione significante su una persona coinvolta in una relazione interpersonale attuale (Freud, 1909).
In psicanalisi e nei modelli clinici psicodinamici Il processo transferale è considerato in gran parte inconscio (Ellenberger, 1970): si attiva indipendentemente dalla volontà del paziente (e del terapeuta) e può acquisire caratteristiche positive o negative in dipendenza dalle caratteristiche delle relazioni oggettuali del passato del paziente che vengono sollecitate. E’ infatti fortemente connesso alle relazioni oggettuali dell’infanzia, e le riproduce con la medesima intensità emotiva (Racker, 1970).
Il transfert è presente in ogni tipo di relazione interpersonale, ma le relazioni di cura, ed in particolare i setting psicologici e psicoterapici, sono la sede elitaria per il suo dispiegarsi. Esso infatti si attiva sempre in maniera significativa nella relazione terapeutica, proprio a causa delle forti valenze emotive della stessa.
Secondo Freud (1909) il transfert è una forma di innamoramento che prescinde dall’aspetto, dall’età e dal genere dello psicoterapeuta, e si manifesta anche quando egli si mantiene distaccato dal paziente e conserva un comportamento riservato. Attraverso di esso il paziente riproduce in forma attuale le esperienze emotive ed affettive del passato, rivivendole anziché semplicemente rievocarle.
Il processo transferale inoltre ha sempre una dinamica bilaterale, poiché anche il clinico sviluppa a sua volta un processo controtransferale (Racker, 1970; Jung, 1985) investendo il paziente di processi emotivi e cognitivi della propria esperienza sollecitati dalle caratteristiche del paziente stesso.
Come il transfert, anche il controtransfert non si manifesta solamente nel rapporto tra lo psicoterapeuta ed il paziente, ma anche nelle relazioni sociali e interpersonali, in particolare in quelle che vertono su di un asse verticale, asimmetriche, come quelle tra maestro e allievo, tra sacerdote e adepto, tra genitore e figli (Jung, 1985).
Tuttavia nel’ambito della terapia esso diviene un “oggetto” clinico di fondamentale importanza. In primo luogo, grazie al controtransfert il terapeuta dimostra spontaneamente empatia nei confronti del paziente, e riesce ad immedesimarsi con il suo stato d’animo, cosicché quest’ultimo si sente accolto e compreso (Nicolò, 2007).
Inoltre il controtransfert, proprio perché frutto della reazione tra l’inconscio del paziente e l’inconscio del terapeuta, diviene l’oggetto primario di analisi da parte del clinico (Racker, 1870).
Transfert e controtransfert vengono sollecitati e nutriti di volta in volta da caratteristiche differenti delle personalità del paziente e del terapeuta, che indirizzano la selezione, tra le relazioni oggettuali pregresse, di quella che verrà proiettata nella relazione terapeutica.
Tra le varie caratteristiche che elicitano il transfert vi sono spesso elementi di tipo culturale (Terranova, Servida, 2010). Possono essere somiglianze o divergenze tra le caratteristiche culturali dei due interagenti,oppure aspettative derivate dalle proprie conoscenze della cultura dell’altro.
Paziente e terapeuta possono condividere elementi legati al genere e all’età, oppure al ceto sociale; oppure possono percepirsi come diametralmente opposti proprio su questi due assi. Possono emergere elementi di differenza culturale legati alla differente area del paese in cui sono cresciuti (Nord-Sud, città-campagna), oppure addirittura appartenere a popolazioni ed etnie manifestamente diverse ed essere influenzati dagli stereotipi e dai pregiudizi acquisiti relativamente all’etnia dell’altro.
Il transfert e il controtransfert culturali sono più difficili da far emergere a livello di coscienza, proprio perché, in genere, viene sottovalutato l’impatto della cultura (che presiede i processi di significazione e simbolizzazione!) all’interno della relazione clinica. Proprio per questo essi possono creare movimenti emotivi molto violenti, in entrambe le direzioni.
Per quanto riguarda il paziente, un transfert culturale negativo può rendere inefficace il lavoro di creazione della compliance, perché il paziente non riesce a sentirsi compreso, mentre un’identificazione troppo forte può portare al desiderio del paziente di assimilarsi(Berry et al., 1992) alla cultura del terapeuta costruendo un falso Sé, anziché rafforzare la propria identità.
Il terapeuta a sua volta può vivere un processo di intensa immedesimazione con il paziente, con il rischio di promuovere un processo assimilatorio anziché uno di autonomia, oppure vivere dei sentimenti di rifiuto, incomprensione, ostilità che lo spingono a mettere in atto movimenti espulsivi.
Esemplificazioni attraverso casi clinici
W., 44 anni è un’insegnante di matematica in una scuola professionale di Milano.
Lavora con molta energia e passione, ed instaura con i propri allievi ottime relazioni basate sul confronto, sulla discussione, a volte piuttosto vivace, e costellate di sinceri scambi emotivi. La scuola in cui lavora ha una prevalenza di studenti (e di insegnanti) maschi, ed è fortemente multietnica (70% di studenti stranieri, provenienti da più di 20 paesi diversi).
W. Ha imparato quindi a relazionarsi a gruppi a prevalenza maschile, utilizzando toni e maniere dirette e vivaci, e non ha mai avuto problemi, fino all’arrivo, a scuola di un gruppo di studenti filippini.
La relazione tra W. E questi studenti è difficile, la comunicazione scarsa, l’empatia assente da ambo le parti. L’insegnante descrive i ragazzi come svogliati, poco interessati alla relazione, poco presenti. Gli studenti filippini giudicano W. Maleducata e razzista. Cosa è successo?
I giovani filippini sono il primo gruppo così ampio di studenti orientali della scuola, ed hanno delle modalità comunicative e relazionali parametralmente diverse a quelle degli studenti stranieri fin’allora incontrati da W.
Quando vengono interpellati rispondono solo se sanno la risposta, se sgridati abbassano la testa e sorridono, per educazione e per vergogna, se le sgridate vengono ripetute restano ancora in silenzio.
Quello che nella loro cultura è considerato un comportamento educato ed adeguato di rispetto verso l’adulto, è interpretato da W., che confronta il loro comportamento con l’esperienza sviluppata con ragazzi di altre culture, come apatia, disinteresse nella scuola, mancato desiderio di ingaggiare la relazione con gli insegnanti.
A loro volta, gli studenti filippini confrontano il comportamento di W. alle proprie esperienze culturali di insegnante di donna, e W., che si relaziona in una maniera molto mascolina, viene percepita come maleducata e inadeguata nel proprio ruolo, e, poiché insiste a provocare i ragazzi nella speranza di vedere una reazione e ingaggiare una relazione empatica con loro, viene vissuta come invadente e razzista.
G., 30 anni, proveniente dall’Est Europa, approda nello studio di una giovane terapeuta con sintomi ansioso-depressivi.
La ragazza è stressata per via delle condizioni lavorative faticose, per la mancanza della famiglia d’origine, dei figli, e per il ricongiungimento con il marito, con il quale aumentano le incomprensioni e le liti. G. lavora tanto, fa la badante ad una persona anziana la notte e le pulizie di giorno, e con il marito si vedono poco.
Quando va a casa, per poche ore, G. deve pulire, fare il bucato, cucinare. Suo marito non sa fare i mestieri di casa “perché è un uomo”. Si lamenta perché G. c’è poco, si lamenta per la cena, si lamenta perché quando passa l’aspirapolvere la sera lo disturba mentre riposa.
La terapeuta vede G. impegnata dal lavoro (immedesimandosi), in cerca di una migliore integrazione in Italia, in cerca di una situazione migliore per i suoi figli. Cerca di promuovere in lei un processo di emancipazione, che le permetta di essere più autonoma, più indipendente e più felice.
Questo non fa che inasprire la situazione familiare, e G. si sente sempre più infelice e non realizzata. Finché ad un certo punto il marito trova un lavoro meglio pagato, per cui deve fare delle trasferte, e chiede a G. di lasciare parte dei suoi lavori, per occuparsi meglio della casa e della famiglia.
G. guadagna meno, esce meno di casa con le amiche, ma è più felice: suo marito le ha dimostrato che ha bisogno di lei come moglie, quindi le vuole ancora bene: ciascuno ha recuperato il ruolo di genere riconosciuto dalla cultura di appartenenza, e la coppia è tornata a funzionare, con soddisfazione di entrambi.